Scrivo in corsivo, per sottolineare il fatto che sto parlando.
Immagino il tuo ascoltare, come se
queste parole stessero davvero uscendo dalle mie labbra, leggendovi tra
le righe i miei respiri e quelle pause che non hanno bisogno di virgole.
Quel giorno ero già in borghese, via
camice e via cartellino. Ti davo del Lei, potevi essere mio nonno,
infatti avevi nipoti della mia età. Quando tornai nella tua stanza, ti
trovai seduto sul letto, gli occhiali da lettura ed il giornale in
grembo. Dal profondo di quelle gocce di acqua marina mi sorridesti,
aspettasti tuttavia le mie parole:
– Aldo, posso parlare un pò con lei?
Il sorriso si estese al volto tutto e
mi invitasti giù nel seminterrato, per un caffé (quello delle
macchinette non è a tutt’oggi niente male). Coi bicchieri caldi tra le
mani, seduti al tavolino rotondo di metallo approntato in quel luogo, mi
invitasti a parlare…
– Sono rimasta scioccata nel suo racconto della deportazione in Russia. Come ha fatto a resistere, come ha fatto…
– Bambina mia -hai detto- ogni ferita
che sento è un ricordo delle persone che ho lasciato lì, ragazzi che
come me affondavano il passo fino a metà coscia nella neve dura; quanti
di noi sono morti in quel ritorno, prima di cadere a terra. Ad occhi
spalancati, non c’era tempo per piangere e fiato da salutare, strappavo
la piastrina di riconoscimento, cercavo la lettera di saluto alla
famiglia che tutti avevamo intasca e pensavo “mamma, non posso darti
anch’io questo immenso dolore”…
b.l.
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Aldo G. è mancato nei suoi splendidi capelli bianchi, spentosi di cancro pochi mesi dopo quell’episodio, nel 1999.
Non ricordo con precisione tutte le parole che mi disse, ricordo
perfettamente quel “bambina mia” e quelle gocce di acqua marina.